COSA SIGNIFICA ESSERE SENZA DOCUMENTI DENTRO LA FORTEZZA EUROPA
L’approccio cui siamo soliti in materia di immigrazione spesso non va oltre ad una superficiale citazione di frasi fatte e di slogan presi da testate giornalistiche, che forniscono visioni frammentarie e di stampo allarmistico, senza curarsi della situazione nel suo complesso, nè di fornire gli elementi sufficienti per un ragionamento critico sul tema, e creando infine quella che definisco un’inconsapevole ignoranza diffusa.
Come parte attiva di un organismo che lotta in favore della cittadinanza responsabile, dell’abbattimento dei pregiudizi culturali, dell’incontro tra persone, noi di AEGEE-Udine abbiamo cercato di creare un dibattito che andasse al cuore della questione in termini meno ideologici possibile. Un punto di vista nuovo ciascuno dei presenti lo ha forse conquistato da sè mettendosi in gioco e ragionando insieme a Davide Cadeddu, l’autore del libro “CIE e complicità delle organizzazioni umanitarie”, che è stato nostro ospite Sabato 10 Maggio.
L’idea che avevamo prima sull’esistenza di centri di detenzione per migranti sfumava confondendosi con gli assai noti centri di prima accoglienza, continuamente argomento di quel racconto dell’immigrazione che si serve di Lampedusa come palcoscenico per gridare “l’invasione dei profughi”.
A nessuno era chiaro invece che nei CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione, fossero recluse persone prive di precedenti penali, il cui unico reato è quello di esistere. Non essendo in regola con il permesso di soggiorno, infatti, essi sono detenibili fino a 18 mesi, in attesa di un’identificazione da parte dell’Ambasciata dello stato d’origine e quindi di un conseguente rimpatrio, che, però, solo nel 45% dei casi circa effettivamente avviene, mentre la restante parte dei migranti detenuti viene rilasciato nel territorio, fino a successiva eventuale cattura.
Credo sia stato per molti shockante scoprire che, spesso, alle persone lì recluse è caduta addosso l’etichetta di “clandestino”, accompagnata dall’angoscia di essere “illegali”, da un giorno all’altro, semplicemente per un permesso di soggiorno scaduto e non rinnovato perché la crisi ha fatto perdere loro il lavoro.
E’ anche questo il paradosso dei CIE: potresti trovare prigioniero di quelle gabbie il tuo ex compagno di classe, cresciuto giocando con te al campetto, o un uomo che ha figli con la cittadinanza italiana. Magari anche un richiedente asilo, che se rimpatriato rischia la vita, insieme degli ex detenuti del carcere, che, per mancata applicazione della circolare interministeriale Amato-Mastella del 2007, continuano ad essere identificati nei CIE e sottoposti quindi ad un’inutile, ingiusta e costosa per lo Stato, doppia detenzione.
A volte in un CIE può finirci persino un minore, non riconosciuto come tale dall’esame del polso, come anche un uomo sposato con un’europea, che ha preso il mare perché era l’unico modo per poterla raggiungere in tempi utili.
“Accanto alle forze dell’Ordine, ossia la Polizia e gli Alpini, sono le organizzazioni umanitarie ad occuparsi direttamente di questi Centri – denuncia Davide – rendendosi di fatto complici della detenzione amministrativa, pertanto ingiustificata, di queste persone. Oltre al paradosso etico che sta dietro a questa scelta, immaginate le dirette conseguenze sulle persone recluse. Immaginate, per esempio, lo spaesamento di un ragazzo, curato poche settimane prima in un ambulatorio di Croce Rossa, che adesso ritrova la medesima organizzazione cui si era affidato e dalla quale era stato sostenuto nel momento del bisogno, e magari pure la medesima persona, a somministrargli i sonniferi e gli psicofarmaci (di cui nel CIE normalmente si fa uso per sopportare la reclusione) o a chiudere la porta della gabbia in cui è, per ragioni a lui incomprensibili, trattenuto.”
Attraverso un’analisi estremamente logica e accurata, condotta anche ripercorrendo le tappe storiche che hanno portato alla configurazione attuale di questi centri, Davide arriva a sostenere una continuità tra CIE e campi storici di internamento, in particolare evidenziando alcuni parallelismi con i lager nazisti. Egli stesso sottolinea come questa affermazione possa sembrare azzardata, se non si mettono in luce alcuni aspetti del ragionamento che l’ha prodotta. Innanzitutto, bisogna considerare che la deportazione e la messa a morte non sono letteralmente concepibili senza che precedentemente sia avvenuta una deumanizzazione della figura del migrante, passaggio che permette di approcciarsi in seguito agli appartenenti a questa categoria come a non-persone, fino al punto che che commettere qualsiasi atto nei loro confronti non appaia più come un delitto.
Poi, va considerato che alcune funzioni del campo storico, come ad esempio lo sterminio, non devono essere attribuite meccanicamente al CIE, quanto scomposte e rintracciate nel panorama più ampio, che è la Macchina dei Respingimenti e delle Espulsioni, che si sviluppa intorno a questo dispositivo, non dimenticando ad esempio l’istituzione di altri campi equivalenti oltre i confini della Fortezza Europa, quali ad esempio quelli realizzati per conto del Governo Italiano in Libia e finanziati dallo stesso. E non dimentichiamo nemmeno che nei CIE effettivamente si muore, sia per omissione di soccorso e per violenze di vario genere, sia per suicidio e per le oggettive condizioni di vita. E questo fatto è ormai ampiamente documentato.
A questo punto del ragionamento, considerando anche che meno dello 0,1% dei migranti irregolarmente presenti sul territorio viene effettivamente rimpatriato, rivelando l’inutilità del proposito stesso di questi centri e lo spreco dal punto di vista economico per lo Stato nel mantenerli aperti, dovrebbe sorgere spontaneo chiedersi quali siano gli scopi effettivi dell’esistenza dei CIE.
Nell’analisi di Davide, viene evidenziata da un lato la loro funzione economica, legata ai profitti delle organizzazioni che li gestiscono a spese dei migranti, dall’altro la volontà di creare e alimentare una manodopera docile e priva di diritti, pronta per essere sfruttata.
In quest’ottica, i flussi in entrata e i rimpatri forzati sono la stessa faccia di una stessa medaglia.
“Abbiamo infatti bisogno di questa “umanità in eccesso” perché quella parte della nostra economia, fondata sul caporalato, sul lavoro a nero, sullo sfruttamento del lavoratore straniero, non crolli.
Dall’altro lato però, tramite i CIE e gli altri dispositivi di controllo della Macchina delle Espulsioni, gestiamo i flussi in entrata, non garantendo praticamente alcun modo legale e sicuro per raggiungere la penisola, e rendendo la permanenza di chi si trova, per ragioni in fondo legate alla presenza stessa di queste frontiere invalicabili legalmente, in condizione di clandestinità, pari a quella di un topo di fogna, costretto a nascondersi per non essere calpestato e privo del diritto di denunciare ogni abuso o maltrattamento.”
A questo punto del ragionamento, i CIE non appaiono più come un frutto inevitabile della situazione socio-politica attuale, quanto una scelta razionale ben deliberata e ponderata.
Sotto questa luce, vista anche la prossima riapertura del CIE di Gradisca prevista per il 2015, che sembra essere confermata in questi giorni, vorrei lasciarvi un ultimo personale spunto di riflessione.
Credo che la questione CIE, calata nel contesto ben più ampio che abbiamo visto, non riguardi più solo coloro che provano filantropica empatia per le sorti di chi è nato in un paese con meno diritti, ma ogni cittadino responsabile che abbia a cuore le sorti del suo paese, semplicemente perché un giorno questi diritti umani tanto proclamati e così palesemente violati a spese di altri, mentre guardavamo con indifferenza, potrebbero essere violati a spese dei nostri figli e nipoti.
Perché i diritti dell’uomo per loro stessa definizione, non hanno età, sesso, colore e perché basta veramente poco, una volta avvenuta la normalizzazione di una violenza, perché questa si possa estendere silenziosa ad altri contesti, prima impensabili.
Laura Garbelotto, AEGEE-Udine